Ecco In-erme, scritto per provare a vedere, pur da qui, la guerra dal punto di vista delle vittime. Esercizio di pietà per i neuroni specchio di qualsiasi creatura. Il lavoro di teatro e danza che è stato messo in scena a partire dal testo ha debuttato a Rovereto, al Festival Oriente Occidente il 4 settembre 2014, per la cura della compagnia Balletto Civile.
I
Chi parlerà di noi, chi scriverà? non piangere, non sai, non estenuarti, chi parlerà di tutto questo, il ricordo, come farà a percorrere una strada? e chi racconterà cos'è successo? aspetta, non estenuare la pazienza, c'è un nervo, un fuoco vivo, ancora, un nodo, chi lo porterà fuori, chi dirà: fu così e poi così, che successe, si spinsero fin qua , spinsero forte, un corpo contro l'altro, ci ammucchiarono, dentro città assediate che poi furono, le nostre tombe, le fosse?...
Di noi, uscì vivo il più debole, il più scaltro: l'agitatore, il contabile, l'atleta, non il bimbo paziente che negli occhi, aveva una domanda, chi risponde? chi è che ha voluto per sé qualche cosa, che non si deve chiedere, chi è stato, che ha cominciato e seguito, chi lo dice? chi lo racconta al bambino? che ancora aspetta, tra mucchi di corpi, fatti concime ormai, tornati terra, schiacciati, fusi, nella calce dei muri...
Chi vivrà, chi abiterà su quelle ossa, lo saprà? di cosa è fatto il pavimento, su che cosa, poggia la casa, cosa c'è, nella terra, le salite e discese, di una città che fu piana, ombrosa, fertile, e adesso è secca, a picchi, scale, vento, calda e gelata, spietata, chi dirà, perché fu scelto il deserto, fu deciso, di fare ordine, e schiacciare col piede, il cranio del fratello, forte, a lungo, che lezione, doveva essere data, a chi? perché? non piangere, in silenzio, lungo il tempo, in giorni, settimane, mesi, anni, l'albero quasi morto prende vita, attorno nascono getti, nuove piante, piano ritorna il bosco, senza nome? senza più un nome? a cosa serve battezzare, distinguere, dire sì, no, e chiamarci per nome, farci crescere all'ombra, dar consigli, la fatica di piegarci a qualche cosa, che val la pena vivere, decidere, di scambiare la libertà con una regola, e poi tornare liberi, decidere, lo sguardo sempre un po' più dritto, più capace, di fronteggiare l'altro, senza guerra, a che serve, questo sapere accumulato, bevuto con il latte, e poi difeso, provato e riprovato lungo i giorni, nel ritmo disuguale delle età, e generi, famiglie, fughe, umori, hanno nomi, hanno nomi, storia, un ritmo, queste vite ora mute, chi le dice? chi le racconta, anche adesso, anche a tempo scaduto, chi le dice?
II
Che strazio quei morti giovani, e le madri? che li hanno fatti, allattati, le madri, che li han tirati fuori e poi cresciuti, alzati sui talloni, fatti andare? nessuna annunciazione le prepara, a una morte precoce, nessun angelo, le madri, l'han da sentir da sé quella parola, di Gabriele, di Simeone, dentro il tempio, a te una spada trapasserà il cuore, sarà gloria di Dio ma poi un giorno, preparata da tutto e da niente, un meccanismo misterioso, ma coerente, interno a tutto, il suo stesso motore, ecco: l'offerta del più piccolo, l'agnello, mucchi di carne spenta, d'ossa, vene, gettate morte a mucchi, accatastate, le madri, l'han da sentir da sole quella voce, dell'angelo che dice: sarà gloria, ma poi dolore e infamia, buio, notte...
III
Da qui, non ci voglio pensare, da qui sotto, non pensarci, da qui, dov'eravamo tutti, dove ognuno, era intento a qualcosa, nel silenzio, o nel parlare feriale, ripetuto, solo appena variato, non pensarci, da qui, prima che tutto scoppi e il tetto ceda, al peso della bomba e poi esploda, di stanza in stanza, di finestra in finestra, gettando chiodi attorno, vetri, pietre, spingendoci in un angolo, schiacciandoci, tra solaio e solaio, sotto un tavolo, tagliati da una trave, separati, da un muro di mattoni, una piramide, di monconi di tubi, gambe, cocci, sotto il peso di tutto, molli, storti, tagliati da una trave, ricomposti, come sbagliando ordine, sequenza, da dita capricciose, non pensarci, che entrano dentro il tronco, lo disassano, lo stendono tra spigoli e fessure, dove mai passerebbe, diresti, ci passa, dove mai penseresti: ci passa, da qui sotto, non pensarci, da qui, caduti giù lungo metri, atterrati, su punte di cemento, su altre mura, che s'ammucchiano a terra, e fanno fumo, schizzano fuori acqua, sparan fuoco, fuoco su fuoco, acqua sopra acqua, come due fonti separate, parallele, che non s'incontrano, solo scoppiano e scorrono, aumentando in ampiezza, ognuna a sé, con sé, dividendo in due il mondo, le sirene, aspetto le sirene, tra le grida, di chi scava chiamando, quelle file, di fratelli, di padri, corsi via dai negozi, dai caffè, che adesso cercano le mogli, i bambini, si rompono le unghie, sulle pietre, che sollevano, porgono, al resto della fila, ci dev'essere, anche un po' del mio sangue, che non c'ero, perché? perché non c'ero anch'io, perché a quest'ora? quando solo i neonati, le madri, riposano dentro l'ombra delle case, le finestre accostate, la brezza, soffia tra le fessure, prende forza, asciuga i panni in fretta, i panni, i panni, ora saldati alle stecche d'acciaio, dello stendino, contorte, appuntite, smussate dalla spugna, dei grandi asciugamani ancora umidi, che adesso mastichi, succhi, stringi forte coi denti, usi una manica d'accappatoio come un morso, su cui i molari, i canini infieriscono, chiamando il sangue alla bocca, tutto il sangue alla bocca, via, lontano, dalle gambe schiacciate, dallo sterno, che è una cesta di vimini, vimini, questa parola, vimini, fa ridere, se tu riuscissi a ridere, la culla, dov'è la culla? se il tuo sterno resiste, se respiri, e ancora puoi, respirare col tuo sterno di vimini, la culla, la culla anche ha resistito e lo protegge, la culla, avrà preso la forma di lui, un nuovo utero, di vimini, ai bambini, basta poco per vivere, i bambini, si salvano, lo sai, hanno fortuna, da qui sotto, non pensarci, da qui, dove eravamo tutti, dove ognuno, era intento a qualcosa, nel silenzio, del tutto infranto, in un attimo, da qui, da qui sotto, io ci voglio pensare, da qui, il mondo diviso in due si ricompone, e ti dici: se scampo, solo questo dirò, fino alla fine, che da qui, da qui sotto, da qui, il mondo si ricompone e non c'è niente, nessun movente, nessuna ragione, di mai nessuna delle parti, niente, che giustifichi questo, che abbia un qualche legame con questo, e da qui, da qui sotto, da qui, il mondo si ricompone e non c'è niente, che valga più di quel che c'era e adesso è infranto, e se scampo, io lo dirò, fino alla fine, lo dirò
IV
Anche al di là della cornice di me, di quel che so e non so, di quel che sono, di quello che non sono, né mai sarò, al di là, del mio nome e cognome, la mia altezza, la mia bassezza, il colore di me...E forse non al di là, forse: al di qua, prima del mio colore, del mio nome, di quel che sono e sarò, della mia altezza, o della mia bassezza, al di qua, prima di tutto questo, dentro, prima, in mezzo alla cornice, senza peso, né ancora stile, né linguaggio, prima, senza bocca né suono, e neanche sguardo, dentro, solo per via di un soffio, di un respiro, che ancora non decide, non si alza, solo riempie e poi svuota, svuota e riempie, al di qua, nel midollo, nella pace, di un occhio di ciclone, fermo, vuoto, al di qua di ogni gesto e parola, io ci sono, io già ci sono...Ti chiedo di vedermi, lasciami nel paesaggio, non mi correre, non cancellarmi, solo questo: lascia, ch'io sia quel poco che è vero, al di qua, delle cornici, dei nomi, e divise, lascia passare il soffio, non mi chiedere, più di così, non ancora, solo: lasciami nel paesaggio, lascia fare, a questo mio polmone quel che sa, e che non può non fare, lascia essere, quel che non può non essere, nel poco, dentro il piccolo, al di qua, prima di tutto, in ogni cosa, dentro...Una mandorla, una mandorla d'aria, che si riempie e si svuota, solo questo
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